L’urlo nella notte: la vita viene alla vita nell’abbandono assoluto.

(tratto da una lezione del 2018 di Massimo Recalcati, in cui spiega Lacan)

La vita umana viene alla vita come grido, come urlo, come domanda di soccorso, come domanda di presenza. Domanda che vi sia un altro presente. In questo senso possiamo dire che tutti noi siamo stati un urlo (perduto) nella notte. Tutti noi abbiamo avuto esperienza di questo grido. Tutti noi abbiamo fatto esperienza di questa inermità, di questo essere “gettati vivi nella vita”.

Se la vita viene alla vita nell’abbandono assoluto, la vita si umanizza a partire dal fatto che qualcuno risponda al grido, che qualcuno soccorra, che qualcuno si offra e salvi la vita dal buio della notte. Secondo Lacan l’autismo è in qualche modo una vita senza eco, un urlo che non viene raccolto da nessuno. Raccogliere l’urlo è la dimensione fondamentale dell’altro. La risposta dell’altro traduce il grido (l’urlo nella notte) in parola. Il senso della mia parola non dipende da me che pronuncio la parola, ma dipende da chi la riceve. Il valore della mia parola dipende da chi la ascolta. Mentre io parlo, io faccio esperienza che la mia parola è ascoltata dall’altro. Ecco il soccorso fondamentale dell’altro.

Nessuna vita umana può pretendere di costituirsi da sé, nessuna vita è generatrice di sé stessa, il fantasma di un’ auto fondazione della vita è un fantasma perverso, è un fantasma iper moderno; diventare genitori di sé stessi, diventare il proprio fondamento è un’illusione.

Senza la presenza viva, vivente dell’altro la vita si spegne, si perde nel sonno.

Potremmo dire allora che la vita è un’ INSISTENZA a entrare nell’ordine del senso, ad essere accolta e adottata simbolicamente dall’altro.

Qual è l’esperienza di questa adozione simbolica per quanto concerne la vita umana? è l’esperienza della parola. Noi siamo sostanzialmente parola, parola che si incarna, siamo un verbo che si fa carne. Il grido allora viene tradotto in parola, se l’altro risponde. Se non c’è ascolto, non c’è presenza allora la mia parola perde di senso, e dunque la mia vita perde di senso. La parola, in questo senso, diventa una preghiera, la parola è un appello radicale del soggetto all’altro. Senza esperienza della “parola piena” non c’è umanizzazione della vita. E quale sarebbe la parola piena? Quella che traduce il grido. -Ma cosa vuol dire tradurre il grido? Vuol dire riuscire a mostrare che l’esperienza della parola trasforma la vita. Ad esempio quando il padre dice: tu sei mio figlio.  Ovvero la tua vita non è per caso, la tua vita non è senza senso, la tua vita non è una protuberanza insignificante in questo universo vuoto. Anche se il cielo è vuoto, la tua vita ha un senso. Questo è l’atto fondamentale della paternità ovvero l’atto fondamentale della parola: associare la vita al senso. Se la vita è una ricerca insistente di senso, l’atto enunciatorio del padre “tu sei mio figlio” associa la vita al senso.

Poiché è nella paternità l’atto della parola, ogni paternità è adottiva. Non c’è paternità di sangue; il sangue, lo spermatozoo, la biologia non fanno paternità. Perché ci sia paternità, esperienza della parola, esperienza del riconoscimento (sei mio figlio) ci vuole un atto simbolico, che implica una responsabilità illimitata. Responsabilità dell’adozione di una vita.

Se la paternità associa la vita al senso (tu sei mio figlio), non può tuttavia pretendere di dire in cosa consista il senso della vita. Abbiamo qui, secondo Lacan, il doppio movimento dell’ adozione simbolica della vita (ovvero della paternità).

Se un padre dà la parola, la perde. Per trasmettere qualcosa, bisogna perderla. Fare esperienza della perdita.

Qual è l’esperienza di una vita non adottata simbolicamente? E’ la depressione, ovvero la dissociazione fra la vita e il senso. La vita è sconnessa dal senso. Cade nell’insignificanza, è nell’abbandono più assoluto. Nella Depressione torniamo ad essere quel grido che nessuno raccoglie , che nessuno traduce in parola.