Le leggi dell’anima

la via dell'anima 1Cenni metodologici: esercizi e tecniche per far sedere il paziente dalla parte della propria anima.

Vorrei ora esporre una serie di tecniche, che ho utilizzato, in maniera trasversale, con i pazienti seguiti. Tutti i vari esercizi hanno in comune la volontà di far ‘risvegliare’ nel paziente la consapevolezza, il momento presente, il contatto con la propria anima, con la propria Essenza e con la propria originalità.

Si tratta di ‘escamotage’ tecnici che traducono quelle che sono le leggi dell’anima elencate nel terzo articolo, e che ho appreso in parte durante i quattro anni di corso di Specializzazione, e durante gli incontri del Giovedì con il Dr Morelli e in parte dalla lettura dei testi di maestri spirituali come Osho, Jiddu Krishnamurti o Eckhart Tolle.

 

1)      L’anima vive nel presente: Gli esercizi che mirano a focalizzare l’attenzione sul momento presente sono moltissimi (si veda ad esempio il testo ““Ben Essere e sviluppo delle risorse personali” – Parietti e Faretta), ma un esercizio che trovo molto efficace e al contempo molto semplice è quello di concentrare l’attenzione sul Respiro, per ricollegare la mente con il corpo. Il respiro (corpo) infatti vive nel presente, nel qui ed ora, laddove la mente vive solamente nel passato o nel futuro. Ecco dove ha origine l’intero conflitto. Noi respiriamo qui ed ora, non possiamo respirare domani, né possiamo averlo fatto ieri: dobbiamo respirare in questo momento. Tuttavia possiamo pensare al domani e ripensare a ieri; pertanto il corpo resta nel presente, e la mente continua a galoppare nel passato e nel futuro. Tra il corpo e la mente esiste una frattura. Il corpo è nel presente, la mente non lo è mai; di conseguenza essi non si incontrano mai, non si imbattono mai l’uno nell’altro. E, a causa di questa dissociazione, ecco che affiorano l’ansia, l’angoscia e la tensione. Si vive in tensione, e questa tensione scatena le preoccupazioni. È fondamentale portare la mente al presente, visto che non esiste un altro tempo. Pertanto ogni volta che si inizia a pensare troppo al futuro e al passato, ci si rilassa semplicemente e si focalizza sul respiro tutta la nostra attenzione. Osho nel suo testo “La verità che cura” suggerisce di fare il seguente esercizio: “Ogni giorno, siediti semplicemente su una sedia, rilassati, mettiti comodo e chiudi gli occhi. Poi inizia a osservare il respiro. Non cambiare il ritmo; osservalo semplicemente. Sii un testimone imparziale. Osserva semplicemente il tuo respiro: il respiro che entra, il respiro che esce. E mentre inspiri, dì mentalmente: ‘Inspirando… so di inspirare’, mentre espiri, dì: ‘Espirando.. so di espirare. È tutto qua. Con questa tecnica si riconosce l’inspirazione come inspirazione e l’espirazione come espirazione. E attenzione! Non è necessario recitare tutta la frase: sono sufficienti le due parole: ‘In’ (dentro) e Out’ (fuori)”

Quindi tutto ciò che devo fare è:

o   Fermarmi

o   Sedermi

o   Immedesimarmi nel mio respiro

Si tratta di un modo di accettare senza pretese:

o   Il presente

o   Le sensazioni che si provano

o   Il modo in cui si percepiscono le sensazioni

Così come ci ricorda Eckhart Tolle nel suo testo ‘Il potere di adesso’: “Adesso, nel presente, i problemi non esistono perché scopriamo che siamo perfetti e integri. […] Tutto ciò che occorre fare è allinearsi interamente a qualsiasi situazione affiori in questo momento che sia una situazione esterna o che sia una situazione interna”.

Un altro esercizio suggerito dal Dr Morelli e molto utile nella sua semplicità è quello di far concentrare il paziente su qualcosa di estraneo ai ragionamenti, come ad esempio il suo profumo preferito. Possiamo invitarlo, quindi, a socchiudere gli occhi e a sentire il profumo di un fiore, di un frutto o di una crema che gli piacciono particolarmente, e a diventare tutt’uno con quel profumo. Serve a portare l’anima nel regno della fragranza come dire “al mio mondo interiore, pensaci tu!”. Infatti quando annusiamo non pensiamo.

 

2)      L’anima è naturale, spontanea, non ama essere corretta: invitare il paziente a stare con le sue emozioni senza giudicarle o volerle mandare via, ricordando che l’anima per mettere le cose a posto ha bisogno soltanto di una cosa: che ci accorgiamo di quanto sta avvenendo.

L’anima è naturale, non fa sforzi e allora un ottimo esercizio può essere quello di individuare che cosa da bambini, allorquando non eravamo ancora condizionati dal mondo, facevamo in modo spontaneo, in modo da riscoprire il nostro vero talento. È opportuno chiedersi: “che bambino sono stato? Che adolescente ero?”. Ciò che interessa non è tanto la storia in sé, ma cogliere l’esistenza di una qualche specificità, quel qualcosa di ‘originale’ che magari può sembrare strana, che emergeva spontaneamente e con forza, anche se dagli altri poteva essere disapprovata. Si può avere l’impressione di non ricordare quel qualcosa di strano, ma poi puntualmente emergerà un modo di essere, di fatto unico, irripetibile e inspiegabile..potrebbe essere scrivere racconti, diari, fiabe, disegnare o travestirsi con le maschere, oppure fuggire da casa. Dietro la superficie delle cose che vengono dette c’è un altro essere, c’è l’anima che sa sempre dove andare, cosa fare.

 

3)      L’anima non vive di leggi causali: un utile esercizio immaginativo è quello di far sentire al paziente il dolore (in una zona del corpo) e poi chiedergli di concentrarsi solo su quello, separandolo dalle cause ipotetiche. A occhi chiusi rievoca la sensazione di dolore per essere stata ferita, umiliata. Identifica in che punto del corpo lo senti e mettici sopra la mano destra. Ora togli a quel dolore la causa, colui o colei che l’ha provocato, concentrati solo sul dolore e sulla zona del corpo in cui lo senti. Ora sotto la mano destra senti tutto il dolore, la tua impotenza, la tua debolezza. Adesso prova a immaginare nell’altra metà del corpo un punto in cui percepisci una sensazione di libertà. A tu per tu con il tuo dolore, senza la presenza della sua causa, concediti adesso, in questo momento di sentirti anche libero. Mettici sopra la mano sinistra. Quindi da un lato percepisci la tua debolezza e dall’altra l’arrivo di una nuova forza. Se presti attenzione, senza sforzo, avvertirai che il sentimento di dolore può stare vicino a un senso di libertà e una voglia di nuovo” (polarità dell’anima, vedi punto 4)

Quindi occorre ricordare che i disagi non hanno mai una causa precisa. Ad esempio non dire “la mia tristezza deriva dalla morte di mio padre”, ma “oggi c’è in me questa tristezza. La lascio venire e non mi do risposte”.

Come scrive Osho nel libro ‘Consapevolezza’: “Quando una consapevolezza distaccata e compassionevole incontra una ferita, la ferita evapora, scompare. Non c’è un perché a questo. È semplicemente naturale, le cose stanno così, accade così.”

L’anima ‘ragiona’ in modo globale, ha una radice cosmica: non lasciare il paziente da solo con il suo disturbo/ messaggio dell’anima, ma fare come gli antichi greci e tentare di risalire alle forze cosmiche che si stanno esprimendo attraversano l’individuo. Ad esempio quale Dio si sta affacciando nel paziente attraverso la rabbia? E attraverso il panico? Far sentire al paziente che è parte di un Tutto, di un ordine precostituito e perfetto, che è parte della Natura. Questo oggi è tanto più necessario in quanto si è perso completamente il legame con la Natura, con il Tutto, e ogni individuo si sente isolato nel vivere i propri sentimenti ed emozioni..

 

4)      L’anima è contraddittoria: spesso i pazienti hanno una visione monolitica di sé, incoraggiata da una società buonista che mal tollera le contraddizioni. Ecco che allora un utile esercizio può essere quello di far percepire al paziente il suo ‘lato opposto’. Se un paziente, ad esempio, insiste nel definirsi buono, altruista, ma vittima delle circostanze, invitarlo a ricordare quando è stata l’ultima volta che ha compiuto una marachella, oppure è stato dispettoso, vendicativo e magari ci ha anche provato gusto! Oppure se il paziente si definisce triste, depresso, sempre scontento invitarlo a ricordare i momenti della giornata in cui si è sentito contento, soddisfatto, libero dalla sofferenza. Spesso è proprio la visione unilaterale quella che causa il disagio, in quanto ci rende deboli e incompleti.

 

5)      L’anima ama il buio, il silenzio: si invita il paziente a trovare un luogo o un angolo della propria casa in cui si sente più al sicuro, e dedicare qualche minuto a stare nel buio e nel silenzio.

Anche alcune Immaginate guidate proposte da Riza tendono a riprodurre quelle atmosfere di buio e silenzio in cui dimora l’anima, la nuda presenza, così da attivare le energie più fresche, le energie primordiali che ci abitano (es. di immaginata dal titolo “L’incontro conl’oblio”, vedi appendice 2).

Altri suggerimenti che rispettano la segretezza di anima riguardano il tacere con gli altri i propri problemi, le proprie passioni – soprattutto se appena nate – , i propri segreti così da evitare che venga alla luce qualcosa che, invece, ha bisogno del nutrimento del buio e del silenzio. È solo affidandoci al buio e al silenzio infatti che attiviamo le nostre forze primigenie, mentre se portiamo in superficie le nostre emozioni, i nostri vissuti, i nostri segreti essi vengono banalizzati dal linguaggio e dalle riflessioni altrui (nonché dalle nostre). Oggi, infatti, si pensa che parlare aiuti a superare le proprie difficoltà, a ‘sfogarsi’, ma in realtà non si fa altro che inquinare qualcosa di sacro e che va difeso.

Mi viene in mente l’aforisma di Maurice Maeterlinck, poeta, commediografo e saggista belga: “Non appena le enunciamo, stranamente priviamo le cose del loro valore. Crediamo di esserci immersi fino al fondo degli abissi, e quando ritorniamo alla superficie la goccia d’acqua sulle pallide punte delle nostre dita non assomiglia più al mare da cui proviene. Ci illudiamo di aver scoperto in una caverna tesori meravigliosi, e quando ritorniamo alla luce del giorno non ne riportiamo che pietre false e schegge di vetro; e tuttavia nell’oscurità il tesoro continua a brillare immutato”.

Il Dr Morelli ci diceva sempre che se un paziente vuole rivelarci un ‘segreto’ è meglio invitarlo a tenerlo per sé e a custodirlo come qualcosa di prezioso. Questi sono doni graditi ad anima, la quale in cambio ci ricompensa con attimi di gioia improvvisi. Quindi, ogni giorno, suggerisce sempre il Dr Morelli dovremmo pensare a dove nasconderci, ed ogni giorno imparare a nasconderci un po’ di più.. non solo dagli altri, ma, come abbiamo visto, anche e soprattutto da noi stessi, dalle nostre domande, dalle nostre risposte, dai nostri ragionamenti.. e affidarci solo al buio e al silenzio!

Quando siamo vicino a un grande saggio, non sappiamo mai a cosa pensa, egli fa del silenzio e del segreto il suo modus vivendi. Per i grandi saggi, infatti: “non c’è niente da dire a nessuno, c’è solo da osservare silenziosamente”.

Tuttavia volendo rimanere con i ‘piedi per terra’, piedi che ci vogliono ancorati a una realtà sociale che poco si adatta alla contemplazione, al silenzio, al buio, ma al contrario favorisce una continua iperstimolazione sensoriale, occorrerà almeno scegliere con cura le nostre parole, perché noi non siamo solo ‘ciò che mangiamo’, come recita un antico proverbio, ma anche ciò che diciamo e ciò che ascoltiamo. Ecco che per realizzarsi, ovvero rendersi reali, cioè essere davvero se stessi, bisogna dire solo l’essenziale, stando molto attenti alle parole che si pronunciano. Occorre diventarne responsabili, in quanto parlare e ascoltare sono atti cosmici altamente fecondanti.

Partendo da me ed estendendo la cosa ai miei pazienti, ho notato che l’uso di parole più semplici migliora l’umore e il rapporto con noi stessi. Il nostro linguaggio quotidiano è infarcito di superlativi, iperboli, esagerazioni, e questo anche per colpa dei mass media che propongono a getto continuo modalità espressive sempre più colorite ed estreme. Ma questo può creare effetti psichici inaspettati. Se una persona è triste e dice “sono depressissima”, oppure si sente stanca e dice “sono devastata” creerà due effetti negativi molto importanti: il primo è uno scollamento fra il proprio stato reale e quello manifestato all’esterno, il secondo è che la drammatizzazione manifestata all’esterno peggiora a sua volta lo stato reale di chi la esprime. Occorre quindi rimettere a posto il proprio linguaggio, scegliendo le parole giuste per ogni specifico stato interiore e non quelle che lo amplificano fino a farlo diventare qualcos’altro. Bisogna ritrovare il senso della misura, rinunciando alla spettacolarizzazione delle proprie emozioni e rifiutando questa forma di narcisismo. Far coincidere le parole con la realtà significa far coincidere noi stessi con noi stessi, con una sensazione di maggiore sicurezza e stabilità. Un trucco è quello di fare a volte delle pause prima di esprimerci, così da selezionare i termini più adeguati.

 

6)      L’anima ama i gesti minimi: La formula segreta del benessere – come spiega Raffaele Morelli ne “Le piccole cose che cambiano la vita” – sta nascosta nei piccoli gesti quotidiani che compiamo senza dar loro nessuna importanza. È una forza segreta potenzialmente in grado di darci una gioia infinita, che però noi offuschiamo di continuo coi nostri ragionamenti e i nostri giudizi, col nostro ingolfarci di scopi e progetti. Ecco che è spesso terapeutico cercare di far focalizzare l’attenzione del paziente sui suoi gesti quotidiani, da bere il caffè, ad allacciarsi le scarpe, al camminare, al cucinare, allo svestirsi prima di andare a letto, ecc. ecc. Ogni momento, in questo modo, può diventare un’occasione per diventare consapevoli di sé e del proprio corpo, e per sostare nel presente, il tempo dell’anima, sospendendo il pensiero. È un esercizio che si può iniziare a fare dapprima insieme in seduta “adesso sono qui, sono le 16 del pomeriggio, sono seduto sulla sedia e sto bevendo dell’acqua”; si suggerirà poi al paziente di portare la ‘presenza consapevole’ anche nelle azioni minime fuori dalla seduta. Come suggerisce il Dr Parietti nel testo “Ben Essere e sviluppo delle risorse personali” queste ‘pratiche di consapevolezza’ possono dapprima utilizzare le sensazioni prodotte da specifici modi di orientare le funzioni corporee, in particolare quella respiratoria (“la respirazione consapevole”), quella motoria (“la camminata consapevole”) e quella alimentare (“il mangiare consapevole”). Successivamente potranno essere estese a un numero sempre maggiore di attività quotidiane, in particolare a quelle dalle quali a volte ci pare di essere non soltanto condizionati, ma diretti. Una di queste per esempio è il rispondere al telefono. Possiamo imparare ad usare il telefono invece di farci usare, non precipitandoci a rispondere, sempre e comunque, ma lasciando passare alcuni seppur brevi momenti durante i quali applicare qualche atto di “attenzione consapevole” su noi stessi e sulle nostre sensazioni prima di rispondere. Un’altra situazione tipica è quella dell’incontro con il semaforo rosso che spesso vediamo come un nemico che ci impedisce di arrivare a destinazione e invece può essere identificato come una campana di consapevolezza che ti ricorda di tornare nell’attimo presente. Un semaforo rosso, pur restando sempre tale, può allora diventare qualcos’altro, ad esempio un amico venuto a ricordarci che la nostra vita possiamo viverla soltanto adesso. Può essere divertente far compilare al paziente un diario in cui registrerà questi ‘momenti di consapevolezza’ così da rinforzarne l’abitudine (ma senza che questo diventi un’ossessione o venga avvertito come un dovere). Sembra che i pazienti che tendono a rimuginare continuamente (cefalalgici e/o depressi) o che lamentano una certa confusione mentale traggano particolare beneficio da queste tecniche.

L’anima si rivela attraverso il corpo: occorre sempre chiedere a chi sta male dove avverte il dolore, in quale parte del corpo si diffonde il disagio della rabbia, dell’invidia, della gelosia. Percepire nel corpo le emozioni che chiamiamo ‘sgradevoli’ evita le somatizzazioni e impedisce che esse si incarnino nei nostri tessuti.

Gli esercizi di Distensione Immaginativa, inoltre, mirano proprio a far passare il paziente da una realtà oggettiva, centrata sul mondo esterno ad una realtà soggettiva, nostra, collegata al corpo.

 

7)      L’anima vive di immagini: la ‘traduzione’ in immagini o volti di quelle che sono le emozioni, le sensazioni, e i vissuti del paziente, e su cui si fonda gran parte della metodologia dell’istituto Riza, rappresenta proprio il tentativo di entrare in contatto con la nostra parte ‘animica’ che poco ha a che fare con la razionalità e il linguaggio verbale. Così per esempio la tristezza che si prova ogni mattina può diventare ‘un velo nero di seta che ci avvolge per far morire le parti di noi che non sono più necessarie’. Oppure si può invitare il paziente a visualizzare il suo volto quando è felice così da portarlo a pensare a un sé libero da ansia, paura, dolore e ricondurre la mente in un stato di pace: come è il suo volto quando è felice? Dove si trova? Come è vestito? Cosa fa? O ancora si può invitare il paziente a immaginare un personaggio che conduce una vita completamente diversa dalla propria oppure un personaggio per ognuna delle caratteristiche del proprio carattere in modo da stimolare la convivenza e il dialogo fra le varie parti che abitano dentro di noi. Gli esempi sono infiniti, ma tutti mirano a stimolare nel paziente un linguaggio che si avvalga di analogie e metafore di elevato valore simbolico, in modo da ‘dar voce’ al suo mondo interiore.